Negli Stati Uniti sono circa un centinaio le università che permettono agli iscritti di scegliere un nome più adatto al loro nuovo genere. Ed è di pochi giorni fa la notizia che l’università del Vermont ha anche riconosciuto a una sua matricola l’uso del pronome «they», cioè «loro», al posto di «lei» o «lui»: Rocko Gieselman, 21 anni, si definisce «genderqueer» («trasversale ai generi») e rivendica di appartenere a un terzo genere «neutrale».
In Italia non si arriva a tanto, ma sempre più atenei escogitano soluzioni per gli iscritti «in transizione»: oltre a Catania, Torino, Milano, Padova, Verona, Bologna, Bari, Napoli e Urbino. «C’è una sorta di competizione per attirare questi studenti, che sono sì un’esigua minoranza, ma spesso giovani in età dello studio — dice Tiziana Vettor, presidente del Comitato unico di garanzia (l’ex Pari opportunità) della Bicocca di Milano —. Da noi si parla di circa venti su oltre trentamila immatricolati». La Bicocca, come la Statale di Milano, invece che un alias ha previsto il nome puntato sul libretto.
Università rifiuta gli studenti LGBT: “sono una cattiva influenza per gli altri studenti”
«I diretti interessati, però, si sono lamentati: tutti gli altri hanno il nome di battesimo e finisce che sono ancora riconoscibili — aggiunge Roberta Dameno, docente del Centro interdipartimentale per gli studi di genere —: i professori che non sono al corrente dell’iniziativa chiedono perché, creando imbarazzo proprio prima dell’esame. Adesso stiamo valutando anche noi il doppio libretto: vogliamo venire incontro alle esigenze e ai diritti di tutti», conclude.
«Non è una misura astratta: tocca davvero la vita delle persone. Serve tantissimo», dice Christian Ballarin, 37 anni, torinese, uno dei leader del movimento transessuale italiano. Torino, grazie al lavoro congiunto della consigliera di parità e dell’allora comitato universitario per le pari opportunità, è stata la prima università italiana a introdurre il doppio libretto, nel 2003, su richiesta del circolo Maurice di cui Bellarin è presidente: «Noi abbiamo portato un bisogno, ma sono stati loro a lavorare per trovare la soluzione legale», assicura.
È per questa apertura della città, che ospita uno dei più importanti centri italiani per la cura delle persone trans, che Riccardo (nome di fantasia), 22 anni, si è trasferito qui da un’altra regione. «Lì non avrei mai potuto studiare: la gente mi strattonava per strada per chiedermi se ero maschio o femmina — dice —. E avrei incontrato di nuovo i compagni che mi tormentavano alla superiori».
Ormai grazie alla terapia ormonale sfoggia barba e forme maschili, ma anche a Torino non tutto è filato liscio: «All’inizio mi avevano dato il libretto con il nome nuovo, ma continuavano a lasciare quello femminile nella mail che serviva per le iscrizioni ai corsi. Io non lo sopporto: entravo in ansia e non la usavo mai. C’è voluto un po’ per risolverla». Intanto Riccardo ha finito le procedure per il cambio di sesso e ad aprile spera di ottenere i documenti che lo renderanno anche legalmente un uomo. «Mai mi sarei laureato senza avere il nome nuovo — spiega —. Non sarei neanche riuscito a sostenere la tesi».