Stranizza d’amuri, il film che segna l’esordio alla regia di Giuseppe Fiorello, è un vero capolavoro.
Quest’opera cinematografica rappresenta, per lo spettatore, un’esperienza totalizzante, segnante, cruda. Un tuffo in un mare di dolore, di rabbia, ma anche di tenerezza, di purezza.
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Un tuffo dove l’acqua è alta, fredda e la riva è lontana. Ma l’occhio di Fiorello non è rivolto alla distanza che c’è dalla salvezza, guarda dall’altra parte, verso l’orizzonte in cui cielo e mare si confondono. Per questo, Stranizza d’amuri non è solo spietato, ma soprattutto poetico. Non è doloroso per sensazionalismo, ma per necessità. Non è romantico per coinvolgere, ma per restituire al pubblico una storia che è innanzitutto d’amore, e solo poi di dolore.
Stranizza d’amuri, che è un film (ancora) necessario
Stranizza d’amuri è un film potente e delicato. Utilizzo quest’ossimoro perché non è innocuo, ma nemmeno (soltanto) doloroso. È un film che con intelligenza, garbo e poesia racconta un amore tenero, pulito, travolgente. E con altrettanta lucidità e feroce sincerità rivela lo sfondo culturale e sociale in cui quest’amore nasce e tenta faticosamente di esistere. È un’altalena, una strada piena di curve, volare e cadere si somigliano a tal punto da confondersi e lo spettatore prova sensazioni di rabbia e tenerezza. Ma certamente mai sensazioni tiepide.
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Al centro c’è l’amore di Gianni e Nino (interpretati rispettivamente da Samuele Segreto e Gabriele Pizzurro), tutt’intorno la Sicilia dei primi anni Ottanta: una cittadina piccola, impreparata alla relazione tra due uomini, per questo incattivita, giudicante e violenta, e poi due famiglie, due radici marce, annodate alla paura del giudizio. Quella di Stranizza d’amuri è una storia in cui ogni personaggio, ad eccezione dei due protagonisti, si guarda attraverso gli occhi degli altri, si determina attraverso il (pre)giudizio degli altri, si conosce attraverso i limiti degli altri. Il risultato è una società ostile, gretta, in cui nessuno è libero: i due protagonisti non lo sono in quanto omosessuali, gli altri in quanto vittime di sé, dell’incapacità di rivendicare la propria intima e sofferta unicità.
Per questo è un film necessario: la storia di Gianni e Nino, ma soprattutto il loro coraggio, è una spiegazione ante litteram di cosa significhi autodeterminarsi: i due protagonisti di Stranizza d’amuri, sfidando ciò che è considerato da tutti normale e inviolabile, non si accontentano di essere quello che gli altri vorrebbero, ma sfidano l’ottusità, l’arretratezza e la crudeltà della gente per essere se stessi. E alla fine, nonostante tutto, ci riescono.
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Stranizza d’amuri è un faro in quel mare di rabbia e dolore di cui parlavo e mette in luce un fatto che non è (ancora) ovvio: la libertà è una conquista che inizia dalla conoscenza, consapevolezza e accoglienza di sé. Non è mai fuori di sé, è sempre dentro, barricata sotto strati di preconcetti, costrutti sociali, dogmi. La libertà non è da scoprire, ma da riscoprire. E va allenata. Gianni e Nino l’hanno fatto, senza sapere quanto la loro storia sarebbe stata importante, se non indispensabile, per chi è venuto dopo di loro.
Stranizza d’amuri: la storia vera di Giorgio e Antonio
Stranizza d’amuri racconta una storia vera: si tratta del tristemente noto delitto di Giarre, avvenuto il 31 ottobre 1980 a Giarre, appunto, un comune in provincia di Catania. Le vittime sono state Giorgio Agatino Giammona e Antonio Galatola: i due giovani venivano chiamati “i ziti”, vale a dire “i fidanzati”. Giorgio, soprannominato in modo dispregiativo “puppu ‘cco bullu” (“omosessuale patentato”), era stato sorpreso, in passato, in atteggiamenti intimi con un altro giovane uomo e, per tale motivo, denunciato ai carabinieri. Era dunque dichiaratamente gay.
Dopo una scomparsa di due settimane, Giorgio e Antonio sono stati trovati morti, mano nella mano, dopo essere stati raggiunti da un colpo di pistola. A seguito delle indagini, si è scoperto che il colpevole del duplice omicidio era Francesco Messina, nipote tredicenne di Antonio. In un primo momento, il ragazzino ha detto che erano stati i due giovani innamorati a chiedergli di essere uccisi, costringendolo così a sparare, dal momento che non avrebbero mai potuto vivere la loro relazione sentimentale. Ma non è finita qui: Francesco Messina ha affermato anche di essersi dichiarato colpevole dopo aver ricevuto forti pressioni dai carabinieri.
Dopo la morte di Giorgio e Antonio, comunque, è nato il primo circolo Arcigay ed è stato costituito il primo collettivo del FUORI (acronimo di Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) nella Sicilia orientale. L’Arcigay è nato da un’idea di Marco Bisceglia, sacerdote apertamente omosessuale, in collaborazione con Nichi Vendola, insieme a Gino Campanella e Massimo Milani.