Di Michela Proietti per il Corriere.it
«Non voglio essere chiamato gay, perché sono un uomo. Mi sembra incredibile che ancora oggi si usi questo termine: sono biologicamente un maschio: lo stesso vale per una donna, che è una donna punto e basta, al di là di tutto. La parola gay è stata inventata da chi ha bisogno di etichettare e io non voglio essere identificato in base alle mie scelte sessuali». Stefano Gabbana, 55 anni di cui 20 trascorsi in coppia con Domenico Dolce lancia un nuovo sasso contro il politically-correct di facciata.
Chi vuole colpire?
«Tutti quelli che continuano a identificare le persone in base ai gusti sessuali. Del resto ho sempre fatto così: quando per strada mi urlavano “frocio”, io li inseguivo». Davvero?
«Certo. Una volta uscendo di casa una macchina con quattro ragazzi mi ha gridato dal finestrino qualcosa del genere. Sfortuna per loro nel frattempo il semaforo è diventato rosso, li ho raggiunti e gli ho detto di scendere dalla macchina. Erano spiazzati».
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Quando ha deciso di rifiutare la parola gay?
«Ci penso da un po’ di tempo, ma la convinzione l’ho maturata un anno fa. Ho pensato che essere un personaggio pubblico poteva aiutare a diffondere una nuova cultura, non più basata sui diritti gay, ma sui diritti umani. Prima che gay, etero o bisex siamo esseri umani».
Come crede che interpreteranno questa posizione le varie associazioni gay?
«Le sigle spesso servono per difendersi, ma io non voglio essere protetto da nessuno, perché non ho fatto nulla di male. Sono semplicemente un uomo».
E il mondo della moda?
«Ho fatto persino una tshirt che presto indosserò con la scritta “I am a man, I am not a gay”. Classificare crea solo problemi: cinema-gay, locali-gay, cultura-gay… Ma di cosa stiamo parlando? Il cinema, i libri e la cultura sono di tutti, anche se capisco che le lobby nascondo quando c’è bisogno di proteggersi da un clima avvelenato». Ancora si sente discriminato?
«Certo, qualcuno invece di Stefano Gabbana mi chiama Gabbana-Gay! Per fortuna i miei problemi li ho superati quando ero più giovane. Ma non tutti hanno la fortuna di essere famosi, lavorare nella moda e vivere a Milano: c’è gente che abita in centri piccoli, presi in giro di continuo».
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Lei non vuole che si usi la parola gay, ma parla lo stesso di diversità…
«Sono cose che ci sono state inculcate dal mondo, dalla famiglia. Ma alle quali dobbiamo ribellarci. Quando ero piccolo mi ricordo che il nostro vicino di casa aveva un compagno: mio padre e mia madre, due persone perbene, mi dicevano di stare attento a quello lì, perché gli piacevano gli uomini. Io pensavo: se gli dico che sono come lui, mi cacciano di casa».
La politica può fare qualcosa?
«Meglio che non si occupi di questi temi, c’è solo strumentalizzazione. La politica ormai è puro interesse personale: come puoi pensare al sociale quando sei mosso da interessi privati? Bisogna lottare per i diritti umani e ho molta fiducia nella scuola: se alle elementari si insegna ai bambini che gli uomini rimangono tali a prescindere dal loro orientamento sessuale, faremmo già un bel passo in avanti».
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Eppure qualcuno dice che la lobby gay sia molto potente.
«È vero e l’ho sperimentato sulla mia pelle, quando scoppiò la polemica delle coppie dello stesso sesso e della possibilità di avere figli. I siti che si occupano di difendere i diritti degli omosessuali furono i primi a dirci: “fate schifo”. Anche per questo sono contro le lobby».
Un omosessuale discrimina un eterosessuale?
«Io no. Ho dei gusti, certo, ma non discrimino chi ha preferenze sessuali diverse dalle mie. E amo le donne, che come noi sono discriminate: la nostra azienda ha molte dipendenti, se fossimo un circolo chiuso avremmo solo uomini».