«Si può amare una persona dello stesso sesso, o dell’altro sesso, l’importante è amare». Esprimi il grado di accordo o disaccordo con questa affermazione. Tante, tante di espressioni di accordo, la maggioranza.
Me lo ricordo come fosse oggi. Ero ancora direttora dell’Istat e con grande passione mi impegnavo per dare visibilità agli invisibili, anche con la rilevazione sulla immagine sociale dell’omosessualità in Italia. Quel risultato era indice di qualcosa di importante che stava cambiando nel nostro Paese. In nome dell’amore (popolo romantico!), si superavano pregiudizi verso gay e lesbiche. I giovani molto di più. Molto meno gli anziani. Eravamo nel 2011. Non esistevano ancora le unioni civili. Ma la maggioranza si dichiarava a favore. Certo, in molti non amavano le esternazioni affettuose pubbliche da parte di coppie dello stesso sesso, mentre le tolleravano di più nei confronti di coppie di sesso diverso. Ma velocemente stava cambiando l’atteggiamento del Paese.
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Poi sono arrivate le unioni civili, i diritti, quelli veri, quelli immediatamente fruibili. Ho partecipato a feste di unioni civili, che ormai tutti chiamano matrimoni. Emozioni e felicità incredibili, virali. Finalmente il riscatto, il sentire che non c’è condanna sociale nell’ amare, il sentirsi più uguali. L’avere la percezione che puoi vivere liberamente i tuoi sentimenti, senza riprovazione sociale, o meglio sapendo che lo Stato non la fa propria e non guarda sotto le lenzuola del tuo letto. In una di queste a cui ho partecipato, un canto nuziale bellissimo e struggente sardo ha introdotto l’esplosione di gioia nella trascinante musica e danza del Mazal Tov ebraico. Consiglio a chiunque abbia qualche dubbio di partecipare a queste feste, di vivere questa esperienza al di là di qualunque posizione ideologica, di gioire in libertà del bello delle diversità.
Segnalavano bene Marzio Barbagli e Asher Colombo nel loro bel libro «Omosessuali moderni» come una buona parte di persone lgbt, contrariamente al senso comune, abbia un forte, fortissimo senso di famiglia che veniva, nei fatti, loro negata dall’ assenza di una legge. Abbiamo fatto molti passi in avanti, a volte lo diamo per scontato, ma non lo è affatto quando parliamo di diritti e dignità delle persone. La norma in questo caso si è adeguata a una trasformazione in atto nella società, e ha agito per combattere le discriminazioni esistenti. Ma tra di noi c’è chi gioisce dell’amore e chi perseguita i «diversi», c’è ancora chi caccia di casa il figlio perché omosessuale, o chi usa l’omosessualità come arma per umiliare, deridere, aggredire fisicamente e sessualmente, istigare all’odio, fare puro bullismo. A scuola, per strada, allo stadio, in famiglia. Si chiama omofobia. È terribile, come il razzismo, l’antisemitismo, il sessismo e va combattuta con tutte le nostre forze. Distrugge chi ne è vittima, un annientamento psicologico e non solo.
È da tanto tempo che si tenta di far passare una legge di questo tipo. E non ci si riesce. I Paesi che hanno unioni civili hanno anche norme contro l’omofobia. In molti casi sono state varate prima delle unioni civili. Mi ricordo, a casa nostra, i tentativi di Paola Concia del Pd e Mara Carfagna, allora ministra delle Pari Opportunità di Forza Italia e poi i tentativi successivi. Di una norma contro l’omofobia c’è assoluto bisogno. In un periodo in cui succedono cose che pensavi non potessero più accadere, le norme a tutela servono tantissimo, e possono avere un grande valore simbolico, cosa non da poco, perché testimoniano che nella nostra società non la si passa liscia se si è omofobi. Il clima urlato, violento, di scontro, deve vederci a maggior ragione convinti ad andare avanti. E le più elementari regole civili del vivere comune non dovrebbero essere materia di contesa. La battaglia culturale contro gli stereotipi, la lotta contro le discriminazioni, dovrebbero vederci tutti uniti in prima fila, essere condivise al di là degli schieramenti .
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