«Nostra figlia è abituata a tutti i tipi di famiglie: c’ è la nostra, quelle etero, quelle con un genitore solo che ormai al parco giochi sono tante. La cosa sconvolgente è proprio questa». Miriam, 31 anni, ha avuto una bimba che ora ha 5 anni insieme alla moglie Silvia, 37 (si sono unite civilmente a dicembre, a Mestre). E il 15 giugno il Tribunale dei minori di Venezia ha riconosciuto a Silvia l’ adozione in casi particolari, rendendola anche legalmente madre della piccola, con cui non ha legami genetici.
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Ma nella sentenza c’ è un inciso, come ha rivelato ieri il Corriere del Veneto , che adesso fa discutere. Le mamme – scrivono i giudici – «dovranno avere un atteggiamento aperto verso l’ identità di genere della bambina, per permetterle uno sviluppo adeguato e l’ opportunità di relazionarsi con persone a orientamento non omosessuale». La frase è tratta dalla relazione dei servizi sociali, che nelle stepchild adoption devono verificare se l’ adozione è nell’ interesse del minore – e in questo caso hanno stabilito di sì. «Mostra però poca informazione su questi temi, prima di tutto perché confonde l’ identità di genere (femminile, maschile o transgender) con l’ orientamento sessuale (etero, gay o bisessuale) – dice Valentina Pizzol, legale di Rete Lenford che ha seguito il caso insieme all’ avvocato Umberto Stracco -. E poi perché tradisce una forma di inconsapevole omofobia: la paura del contagio omosessuale. Nessuno ha mai scritto in una sentenza simile che un figlio di eterosessuali debba frequentare anche persone gay».
C’ è anche una certa ironia: «Se valesse questa regola io sarei etero, perché sono cresciuta senza frequentare neppure una persona gay», dice Miriam con un sorriso. Lei e Silvia sono comunque contente: «Senza una legge nazionale sono i singoli tribunali a decidere se riconoscere o meno le nostre famiglie e quello di Venezia non aveva mai disposto stepchild adoption , anche se nel frattempo ci sono stati i precedenti della Cassazione – prosegue Miriam -. Ora finalmente la bimba si è vista tutelare anche per legge il legame con Silvia.
Per noi era fondamentale, oltretutto i parenti ce li ha tutti qua, a cominciare dai nonni». Miriam, infatti, di origini trentina, ha soltanto gli zii e una nonna: «La bisnonna della bimba: ci ha sempre sostenute nella scelta di averla e la adora, ma è lontana». Anche i giudici per altro rilevano come «l’ adozione costituisca il riconoscimento giuridico di un rapporto di filiazione sorto già anni addietro», che le due donne sono «una coppia con un legame solido e duraturo» e che entrambe vivono «la relazione con la bambina come quella di un genitore con la propria figlia» e quindi stabiliscono che la stepchild adoption «corrisponda all’ interesse della minore».
Miriam fa la magazziniera in un supermercato, Silvia l’ addetta alle vendite: si sono conosciute nel 2006 e da subito hanno desiderato metter su famiglia. «Ne abbiamo parlato dopo due mesi che stavamo insieme. Io l’ ho sempre voluto – racconta Miriam -, Silvia pure, ma mi ha detto che non sentiva il bisogno di avere una gravidanza: ci siamo incastrate perfettamente e da lì siamo andate avanti». Nel 2012 la nascita della bambina, avuta con la fecondazione eterologa.
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«Ora di fronte all’ adozione – ragiona Miriam – la frase nella sentenza diventa solo un dettaglio. Però è sorprendente: i figli delle coppie dello stesso sesso sono quelli esposti al maggior numero di famiglie. Fa parte del nostro compito educativo, anche perché spesso parliamo ai bambini delle difficoltà che si possono presentare quando incontreranno persone che non conoscono il loro tipo di famiglia».
Quanto all’ orientamento sessuale della figlia non è un problema: «È piccola, ma ha una sua personalità molto forte: io e la mia compagna non abbiamo gonne o vestiti nell’ armadio ma lei vuole sempre la gonna da signorina. Sarà come vuole essere, a prescindere da tutto – dice Miriam -. Anzi, è proprio questa la sua fortuna: potrà essere quello che vuole».