Gemma Gaetani per “la Verità“
È normale che una drag queen uomo accusi una drag queen donna di indebita «appropriazione culturale» dell’estetica femminile? In altri termini: può un uomo gay che per professione canta, balla eccetera rigorosamente travestito da donna (e che se lo facesse vestito da uomo non interesserebbe nessuno) intimare a donne vere dallo stesso percorso professionale di non averne diritto?
Può, cioè, un insieme di caratteristiche che appartiene alle donne per natura e per cultura diventare proprietà di uomini i quali, dopo averlo depredato, ne reclamano pure l’uso esclusivo?
Sembrano sofismi da cervelloni che non hanno niente di meglio da fare. Invece, secondo la drag queen più nota al mondo, l’afroamericano gay RuPaul, è così. La vera drag queen è solo uomo. Quella donna è finta e patriarcale, pensate un po’.
Il cinquantottenne RuPaul, che sfilava vestito da femmina sui carri dei gay pride già negli anni Novanta, è un guru talmente influente nella cultura Lgbt che già da un decennio ha ideato e conduce RuPaul’ s Drag Race.
Un reality show di competizione tra drag queen, da noi visibile sul canale Fox Life con il titolo America’ s Next Drag Queen, considerato uno strumento mediatico di gran progresso culturale che ha aiutato l’inclusione delle sessualità alternative.
RuPaul, poi, è anche black, quindi ha sempre rappresentato due minoranze insieme, la nera e la gay. Nessuno, dunque, si sarebbe aspettato un’uscita così «poco inclusiva» nei confronti delle donne, che oggi sono anch’ esse considerate una minoranza da tutelare, negli Stati Uniti più che mai.
Ma si vede che quando l’inclusione riguarda gli altri, gli ex «esclusi» fanno decisamente fatica ad includere ciò che è diverso da loro… Qualche giorno fa, intervistato dal Guardian, l’icona drag superstar che deve al travestimento femminile ogni grammo di fama e fortuna economica, ha pronunciato con indigeribile sicumera le seguenti affermazioni.
Alla domanda: «Permetteresti a una donna biologica di competere nel tuo show?», ha risposto: «Le drag perdono il loro senso di pericolo e di ironia quando non sono uomini, perché si tratta di una dichiarazione sociale e di un grande vaffa alla cultura maschilista. Fare la drag, per gli uomini, è punk rock, è un reale rifiuto della mascolinità».
Evidentemente, però, questo uomo gay che grida il suo «vaffa» alla società sculettando e ammiccando come Mae West e Dolly Parton messe insieme, un po’ di maschilismo l’ha conservato.
Quando il cronista del Guardian gli ha chiesto se una donna transgender possa essere una drag queen, ha risposto che, finché la transizione dal sesso maschile a quello femminile non c’ è stata, può. Altrimenti no.
Cioè: finché un uomo ha ancora gli attributi da uomo, può fare la drag queen, ma quando diventa donna deve smettere.Naturalmente, mezzo mondo Lgbt, femminista e femminile si è risentito. Si è incavolata Peppermint, una drag queen uomo in transizione verso il sesso femminile che ha partecipato anche a America’ s Next Drag Queen.
Si sono indignate Lacey Lou e Georgie Bee, giovani esponenti inglesi del fenomeno, sempre più diffuso, delle drag queen donne. Lacey Lou ha dichiarato: «C’è molta misoginia nella comunità gay, mi ha davvero sorpreso quando ho iniziato a lavorare come drag queen. Ci si aspetterebbe che una comunità che ha subito repressione capisca cosa vuol dire essere ignorati…».
Il dibattito, che prosegue da giorni sui quotidiani internazionali, mostra bene dove stia conducendo questa tendenza a suddividere tutto in categorie e minoranze che poi litigano fra di loro per un pizzico di diritti in più: al delirio.
RuPaul già in passato provò a delineare un confine tra drag queen e donna vera con annessa dichiarazione di superiorità della prima: «Io non faccio finta di essere una donna! Quante donne conoscete che riescono a camminare su un tacco 12, che indossano parrucche alte un metro e venti e vestiti aderentissimi? Non mi vesto come una donna, mi vesto come una drag queen!».
Beh, a parte le parrucche (e aggiungiamoci le imbottiture per le curve e i sospensori, di cui le donne vere non necessitano) tacchi e vestiti anche aderentissimi sono «la donna». La quale, per altro, può farsi apprezzare anche in jeans e mocassini, senza per forza conciarsi da Jessica Rabbit.
In Next drag queen, le prove (chiamate Charisma, Uniqueness, Nerve e Talent) hanno nomi le cui iniziali formano appositamente la parola «cunt», termine volgare che indica il sesso femminile. Diciamolo: la cosa fa schifo.
Il mondo americano (e quello europeo che gli va dietro), con i suoi stucchevoli Me Too e le sue battaglie antisessiste che rintracciano maschilismo anche in un gentiluomo che apre la portiera dell’auto ad una donna, dovrebbero preoccuparsi della triste e misogina reificazione femminile da parte di questi – pure autorevoli, pensate un po’ – esponenti del mondo gay.