Due anni fa, il video pubblicato da Lorenzo Fragola su TikTok aprì gli occhi del pubblico sulla questione della salute mentale nel mondo della musica.
L’artista criticava un sistema difettoso più che singole figure, mostrando come la sua personale battaglia fosse emblematica di una problematica più ampia. Il cantautore non fa nomi di discografici «perché non c’entrano i singoli: è tutto un sistema che non funziona», ma ora, in un’intervista al Messaggero, ha deciso di descrivere meglio le pressioni subite.
«Non mi veniva dato neppure il tempo di ragionare su quello che stavo facendo. Mi facevano proposte e pretendevano risposte secche: «Sì o no». Io non avevo neppure gli strumenti per capire a cosa stessi dicendo «sì» o «no». Alla fine sulle cose che andavano bene non potevo prendermi dei meriti, mentre la colpa delle cose che andavano male ricadeva puntualmente sui miei “no”».
Quando gli venne proposto di fare pubblicità o di scrivere un libro sulla sua vita, l’artista si sentì a disagio. «Mi proposero di fare la pubblicità di un’automobile. Dissi: «Ma che c’entro?». Io volevo scrivere canzoni. Un’altra volta mi proposero di scrivere un libro sulla mia vita. Ma che dovevo raccontare, a 20 anni? Quando cominci a dire tanti «no», alla fine vieni percepito come uno difficile».
Costretto a fare scelte contro la propria volontà:
Sull’essere costretto a fare scelte contro la propria volontà, ammette: «È capitato, sì. Non te lo dicono in maniera esplicita, ma ti fanno capire che la rinuncia a quella cosa potrebbe avere gravi conseguenze, soprattutto quando girano tanti soldi».
Il rapporto con il suo manager, Fedez, è descritto come problematico: «Il rapporto, pessimo, durò pochissimo. Non aveva niente a che fare con il mio modo di vedere le cose. Era stato il mio giudice e in un momento in cui non sapevo di chi fidarmi mi aggrappai a lui. Non avevo molta scelta. Da parte sua non ricevetti supporto».
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«Il 90% dei colleghi usciti da un talent sono finiti in terapia»
Parlando dei segni di cedimento, l’artista apre il cuore sulla sua battaglia personale: «Con la scomparsa di mio papà, nel 2021. Andai in terapia per risolvere gli attacchi di panico: ma quelli erano gli effetti di qualcosa di più profondo, una forma di depressione. E naturalmente c’entrava anche il lavoro».
Sul tabù della salute mentale, osserva: «Perché prima c’era la paura di essere giudicati, percepiti come membri di una casta di privilegiati che non avevano il diritto di mostrare le proprie debolezze. Ora si è capito che essendo così esposti, siamo più esposti anche alle pressioni. In questo ambiente si è soli. C’è tanta competizione. Le posso garantire che il 90% dei colleghi usciti da un talent sono finiti in terapia: vuol dire che c’è qualcosa di endemico. Chi è ai vertici di questo sistema, a partire dai discografici, dovrebbe farsi un esame di coscienza: così ci portate all’esaurimento».