Di Claudio Rossi Marcelli per www.internazionale.it
Dopo aver passato gli ultimi anni a sbattere la testa contro il nodo dei diritti delle coppie formate da persone dello stesso sesso, l’opinione pubblica italiana ha recentemente riscoperto una sua vecchia passione: l’attenzione morbosa per il comportamento sessuale degli omosessuali.
Il tema è tornato alla ribalta prima di tutto per via dell’omicidio di Luca Varani, il giovane massacrato un anno fa in un appartamento di Roma da due amici, Manuel Foffo e Marco Prato.
Alcol, droga, sesso e morte: questo omicidio conteneva tutti gli ingredienti giusti per spingere i mezzi d’informazione a rispolverare i toni da “sordido ambiente omosex” di cui si erano sbarazzati solo qualche anno prima. E ci hanno offerto perfino un nostalgico spauracchio da aids, quando nei giorni scorsi si è diffusa la notizia che Marco Prato è sieropositivo, una rivelazione che secondo la stampa avrebbe gettato nel panico la movida romana. Come se una persona sieropositiva fosse un lebbroso tornato a ungerci dal medioevo.
Il prurito sui festini gay è stato poi risvegliato il 17 febbraio da un servizio delle Iene in cui si accusava l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) di allocare finanziamenti pubblici ad alcune associazioni lgbt che organizzano orge.
Senza entrare nel merito dell’accusa e della sua fondatezza, è comunque impossibile non avvertire l’insistenza puritana con cui il servizio si sofferma sulle pratiche sessuali messe in atto nella darkroom dell’associazione in questione: si ha quasi l’impressione che usare fondi pubblici per il fisting o un glory hole (pratiche che sono descritte nei minimi particolari da uomini intervistati mezzi nudi con la voce camuffata e il viso oscurato) sia più scandaloso che usarli per un più morigerato rapporto orale.
La dovizia di dettagli dispensati, arricchiti in un paio di casi da battute ammiccanti, sarebbe di per sé sufficiente a tradire gli stereotipi in cui è incappata la redazione delle Iene, ma a darne conferma definitiva arriva una frase dell’inviato, che a un certo punto dichiara: “Noi non abbiamo niente contro gli omosessuali, ma…”. La tipica frase che precede una dichiarazione apertamente omofoba.
Sull’onda del servizio delle Iene, il 26 febbraio è apparso sul Corriere della Sera un articolo presentato così: “Gli inviti per i festini selvaggi di Milano a base di droghe e sesso estremo non protetto corrono sulle app Grindr, Hornet e Scruff: ecco la mappa delle notti gay senza limiti”.
Il senso di vuoto
Guidato da un trentenne a cui conferisce il ruolo di Cicerone, ma che per i toni danteschi dell’articolo ricorda molto più Virgilio, il giornalista si inabissa nei gironi dell’inferno, in un tunnel fatto di sesso non protetto, droghe pesanti e linguaggio in codice: “Se non comunichi come loro, capiscono che sei un pivello o, peggio, un infiltrato”. Perso nella sua morbosità voyeuristica, l’articolo non offre neanche l’ombra di un’analisi del fenomeno e perde così l’occasione di centrare il nodo della questione, di cui invece sarebbe davvero ora di cominciare a parlare: tra la popolazione gay c’è un problema. E l’allarmante diffusione del chem-sex, cioè il sesso non protetto e di gruppo fatto sotto l’effetto di droghe, ne è la conseguenza, non la causa.
“Se agisci in modo responsabile non c’è nulla di male a essere promiscuo”, ha scritto il giornalista londinese Alex Klineberg, “ma un comportamento distruttivo è un sintomo di disprezzo di sé. È quindi più probabile che il chem-sex abbia l’effetto di aumentare il senso di vuoto piuttosto che colmarlo. E mentre si diffonde sempre di più nella comunità gay, forse è arrivato il momento di ammettere che abbiamo un problema”.
Il senso di vuoto, e non il sesso estremo, è il problema. In un lungo ed esaustivo articolo apparso sull’Huffington Post, il giornalista Michael Hobbes parla di “epidemia della solitudine gay” e lui, sì, centra il nodo della questione. Perché nonostante il fatto che gli uomini gay oggi godano di una vittoria meritata e un livello di accettazione senza precedenti, ci sono difficoltà che non solo non si sono alleviate, ma si sono aggravate: nella popolazione omosessuale maschile tossicodipendenza, depressione, suicidio e dipendenza da sesso sono ai livelli più alti di sempre. E allora viene da chiederci: stiamo davvero meglio di prima?
“A seconda degli studi”, scrive Hobbes, “le persone gay sono tra le due e le dieci volte più propense al suicidio rispetto agli eterosessuali. Abbiamo il doppio delle possibilità di soffrire di un grave episodio depressivo e, proprio come nel caso dell’ultima grande epidemia che abbiamo attraversato, il trauma sembra molto più concentrato sugli uomini. Un sondaggio tra la popolazione gay di New York ha rivelato che tre quarti di loro hanno sofferto di ansia o depressione, dipendenza da droghe e alcol o praticavano sesso non protetto. Inoltre gli uomini gay hanno meno amici rispetto agli etero o le lesbiche”.
L’isolamento di chi viveva la propria sessualità in segreto è stato sostituito da una nuova forma d’isolamento, al punto che uno studio del 2015 ha rivelato che gli uomini che fanno coming out sono più soggetti allo stress di quelli che scelgono di non rivelare il proprio orientamento. Che è davvero la contraddizione di tutto quello in cui abbiamo creduto finora in fatto di autodeterminazione e benessere personale.
Stress da minoranza amplificato
Tra le cause del mancato miglioramento dello stato di salute mentale degli uomini gay Hobbes cita lo stress da minoranza: “È molto semplice: appartenere a un gruppo discriminato richiede uno sforzo maggiore. Quando sei l’unica donna a una riunione di lavoro o l’unico ragazzo nero nel dormitorio dell’università, hai un livello di preoccupazione che gli altri non hanno. Se sai, o non sai, tenere testa al tuo capo, sei lo stereotipo della donna lavoratrice? Se non prendi il massimo dei voti, penseranno che è per via della tua etnia? E anche se non subisci queste discriminazioni, alla lunga il solo fatto di doverle considerare genera stress”. Per le persone gay – continua Hobbes – l’effetto è amplificato dal fatto che il nostro status di minoranza è nascosto. Non solo dobbiamo compiere tutti questi sforzi ulteriori e rispondere a tutti i nostri dubbi interiori quando abbiamo solo dodici anni, ma per di più dobbiamo farlo senza poterne parlare con gli amici o i genitori”.
Nel suo eccellente The velvet rage. Overcoming the pain of growing up gay in a straight man’s world (La rabbia di velluto. Superare la difficoltà di essere gay in un mondo per uomini etero), lo psicologo Alan Downs esprime una teoria complementare a quella di Hobbes: tutti i bambini omosessuali attraversano un periodo tra gli otto e gli undici anni in cui interiorizzano l’omofobia che sentono intorno a loro e cominciano a disprezzarsi.
In un’età in cui dovrebbero godere dell’amore incondizionato dei propri genitori, si trovano invece a dubitarne e a pensare che la loro diversità li renderà indegni di essere amati. La compensazione che ne segue spinge gli adolescenti gay a diventare più sensibili, più ironici, più belli, più raffinati – fondamentalmente a trasformarsi in una proiezione migliorata di se stessi – in una disperata ricerca di essere accettati. Ma il disprezzo di sé resta sommerso dentro di loro.
E anche se poi il coming out andrà bene, la società si dimostrerà accogliente e i genitori continueranno ad amarli, il senso di vergogna e di rabbia si riaffaccia più avanti nella vita e, se non viene adeguatamente gestito, finisce per spingere un gran numero di uomini verso un malessere profondo e comportamenti autodistruttivi. Come il sesso non protetto sotto effetto di droghe, per dirne una.
Il ritorno del moralismo
“Negli ultimi mesi sono già stato ai funerali di due conoscenti gay trentenni morti di overdose”, mi ha detto un amico parigino l’ultima volta che sono stato a trovarlo, “ma nessuno ne parla, nessuno dice nulla. Sta succedendo qualcosa di terribile tra i ragazzi gay e non se ne sa nulla”.
L’emergenza del chem-sex e la diffusione irresponsabile dell’hiv all’interno della comunità gay sono un problema reale. Ma siamo prima di tutto noi omosessuali a esserne spiazzati, perché dopo anni passati a perseguire obiettivi normalizzanti come il matrimonio ugualitario e l’omogenitorialità, abbiamo perso l’elasticità di affrontare realtà più complesse e scomode, per di più con l’aggravante che in questi anni abbiamo adottato un maggiore moralismo sui nostri comportamenti sessuali.
Mentre prosegue la battaglia per acquisire anche in Italia i pieni diritti del matrimonio gay, però, è arrivato il momento di aprire una seria discussione sul malessere degli omosessuali e sulla tutela della loro sanità mentale. E questo non si fa con articoli scritti scrutando dal buco della serratura delle saune gay, ma con le teorie di esperti e scienziati come Hobbes e Downs. La mappa delle notti gay senza limiti non aiuta nessuno. Sarebbe bene invece che i mezzi d’informazione distogliessero l’attenzione morbosa dalle pratiche sessuali e aiutassero l’opinione pubblica a capire che il vero problema non sono le orge e i festini, ma l’epidemia della solitudine gay.
Di Claudio Rossi Marcelli per www.internazionale.it