De gustibus non est disputandum, dicevano gli antichi Romani: eppure, le discussioni in materia di orientamento sessuale – la tendenza che ha ciascuno di noi a sentirsi attratto da persone dell’altro sesso o del proprio – sono all’ordine del giorno. Nemmeno la scienza ne è immune. Da circa un secolo a questa parte, gli scienziati si scontrano di fronte alla fatidica domanda: gay si nasce o si diventa? Ebbene, ancora oggi, a fronte di decine e decine di studi, rispondere non è per nulla semplice.
Storia travagliata. Né, d’altra parte, l’omosessualità ha mai avuto una vita facile. Pur essendo sempre esistita, nel corso della storia ha avuto i suoi alti e bassi. Accettata e anzi incoraggiata nell’antica Grecia, diventò un “vizio morale” a partire dal Medioevo. A fine Ottocento divenne anche patologia, quando il tedesco Richard von Krafft-Ebing, nella sua corposa Psychopathia sexualis, la inserì tra le devianze sessuali accanto alla pedofilia e al sadomasochismo.
Solo nel 1973 l’omosessualità fu cancellata dal manuale, e solo nel 1990 l’Organizzazione mondiale della sanità si decise a eliminarla dall’ICD-10, la classificazione internazionale delle malattie. Ultimi ad arrivarci furono gli psicoanalisti, nel 1991. E che oggi gli specialisti abbiano definitivamente preso le distanze dall’idea che nell’omosessualità ci sia qualcosa di patologico, lo prova anche il fatto che l’attuale presidente dell’Associazione mondiale degli psichiatri sia l’indiano Dinesh Bhugra, dichiaratamente gay.
A pagare le conseguenze di tanta confusione è stata anche la scienza. Gli studi sull’orientamento sessuale non mancano, ma i loro difetti sono tanti. Per esempio, nella maggior parte dei casi riguardano omosessuali maschi. Inoltre, sono stati spesso segnati da pregiudizi o errori metodologici che impediscono di trarre risposte chiare.
Importante ma molto discusso fu, per esempio, lo studio del neuroscienziato americano Simon LeVay, che nei primi anni ’90 dimostrò che l’ipotalamo (una regione del cervello) risultava più piccolo nei gay che negli etero, cioè più simile a quello delle donne. Si scoprì poi che i gay dello studio erano tutti deceduti di Aids, malattia che provoca alterazioni cerebrali. D’altra parte, se anche fosse vero, si sa che il cervello è plastico: nulla vieta di pensare che questa differenza si sviluppi molto dopo la nascita.
Inconcludenti anche gli studi sui “geni dell’omosessualità”. Al momento sono state identificate due varianti genetiche, una sul cromosoma X e una sul cromosoma 8, che sembrano più frequenti nei gay. Ma il loro significato è discutibile. E gli evoluzionisti si chiedono: perché mai la selezione naturale avrebbe favorito un comportamento che riduce il successo riproduttivo? Infine ci sono gli studi sui gemelli: anche qui si vede una certa concordanza (i gemelli monozigoti tendono ad avere lo stesso orientamento sessuale), ma non in modo assoluto.
Domanda impossibile. «La scienza oggi ritiene che ci sia un’influenza reciproca e continua tra l’espressività genetica e il contesto ambientale», chiarisce Vittorio Lingiardi, professore alla facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza Università di Roma, nell’introduzione al libro di LeVay Gay si nasce? (Raffaello Cortina). «Ogni orientamento sessuale, omo o etero che sia, è così complesso che nessun singolo fattore ne può essere completamente responsabile».
Inoltre, un dubbio sta affiorando: il fatto che ancora oggi la scienza non sia riuscita a rispondere a una domanda apparentemente semplice come “gay si nasce o si diventa?” significa forse che il problema stia nella domanda. «È una domanda a cui non sappiamo rispondere perché le omosessualità sono molte. E perché non c’è una dicotomia netta tra i due orientamenti, bensì un continuum», conferma Lingiardi.
L’idea non è affatto nuova. «Già nel 1924 lo scrittore francese André Gide notava che “tra l’omosessualità esclusiva e l’eterosessualità esclusiva esistono tutte le scelte intermedie”. A confermarlo era poi stato, nel 1953, il Rapporto Kinsey», ricorda Lingiardi. Il sessuologo americano Alfred Kinsey chiese infatti a centinaia di donne e uomini di classificare il proprio orientamento sessuale sulla base di una scala da 0 a 6, dove 0 stava per totalmente eterosessuale e 6 per totalmente omosessuale. I risultati furono sorprendenti, e non solo perché rivelarono che il 10 per cento degli americani era omosessuale, ma anche perché misero in evidenza tutte le sfumature intermedie tra i due orientamenti.
Sessualità fluida. «Quello che oggi la scienza tende a pensare è che in tutti noi ci sia una componente bisessuale fluida, che poi durante la crescita dell’individuo tende a incanalarsi in una direzione, ma che talvolta si modifica anche nel corso della vita», afferma Fabrizio Quattrini, presidente dell’Istituto italiano di sessuologia scientifica di Roma.
Questo non significa che si possa comandare o controllare il proprio orientamento, anzi. «È dimostrato che le cosiddette “terapie riparative”, che cercano di “convertire” un gay o una lesbica in eterosessuali, non solo non ottengono il risultato cercato, ma causano gravi danni psicologici», avverte Lingiardi. Non per nulla sono bandite da tutte le associazioni scientifiche e professionali per la salute mentale per la loro pericolosità. Il caso più eclatante fu quello di Alan Turing, genio matematico e padre dell’informatica, morto suicida dopo una “cura chimica” antiomosessualità.
Ma quando l’orientamento si stabilizza? Secondo LeVay prima della nascita, ed è influenzato da fattori ormonali durante la gravidanza. Secondo altri, nei primissimi anni di vita. «Nella maggioranza dei casi prima della pubertà», chiarisce Quattrini. «Tuttavia, è proprio con la pubertà che le influenze socio-culturali possono avere conseguenze pesanti, per esempio indirizzando verso l’eterosessualità un ragazzo che si percepisce omosessuale, facendo passare il concetto che l’omosessualità sia sbagliata».
Stereotipi addio. Certo è che oggi, con il ridimensionamento dei pregiudizi e la relativa libertà con cui, in molti Paesi, si può assecondare il proprio orientamento, stanno cadendo tutti gli stereotipi legati all’omosessualità. «Si tende a pensare che il gay abbia gesti e tono di voce femminili, e che la lesbica sia mascolina nell’aspetto e nei comportamenti. Non è così: tra gli omosessuali si riscontra la stessa varietà che c’è tra gli etero», dice Quattrini.
Meglio evitare, poi, di domandarsi, o di domandare, chi in una coppia gay abbia il ruolo “attivo” e chi quello “passivo”: è un altro stereotipo, particolarmente duro a morire, che nasce dalla volontà di assimilare la coppia omo alla coppia etero. Da sfatare anche i luoghi comuni sulla durata delle coppie: non è vero che quelle di uomini gay durino meno di quelle lesbiche. È il contrario. «Secondo una recente indagine, una coppia lesbica dura intorno ai tre-quattro anni, quella di maschi gay una decina», riporta Quattrini. «Forse perché le donne, per condizionamenti culturali e ormonali, tendono subito a formare una coppia, mentre gli uomini quando decidono di farlo, desiderano stabilità».
I vantaggi. Eppure, una differenza tra le coppie etero e quelle omo sembra esserci: le seconde affrontano meglio i problemi sessuali. «Prendiamo il caso della disfunzione erettile: una coppia eterosessuale tipicamente entra in crisi», riferisce il sessuologo. «La coppia gay ne esce più facilmente, trovando un’alternativa alla penetrazione». Secondo Quattrini, la coppia etero tende ad avere un’idea fissa del rapporto sessuale: preliminari più coito. La coppia omosessuale, sia maschile che femminile, è molto più flessibile: è sesso anche limitarsi alla masturbazione reciproca, o al rapporto orale, o introdurre altre varianti che possano venire in mente. Ne consegue che le ansie da prestazione sono ridotte e i disturbi sessuali si risolvono inventando nuove modalità. Un’intesa di coppia che è, in questo caso, anche un’intesa di genere: tra donne, o tra uomini, ci si capisce meglio.
Marta Erba per Focus Extra Sessualità