Francesca Vecchioni è stata intervistata da PrideOnline.it dove ha parlato del mondo lgbt italiano, dei pregiudizi e della paura della diversità che spesso noi adulti abbiamo. Qui l’intervista:
perDall’approvazione della legge sulle unioni ad oggi, esistono ancora stereotipi e pregiudizi diretti alle coppie che si uniscono civilmente?
Non voglio fingere che non ci siano problemi: è di pochi giorni fa la notizia dell’apertura dell’ennesimo sportello “no gender” in provincia di Brescia, e atti di omobitransfobia finiscono spesso sui quotidiani. La mia impressione però, per quel che riguarda le coppie che si uniscono civilmente, è che ogni unione contribuisca a migliorare di un poco le cose: per ogni amore che viene riconosciuto, un altro amore trova il coraggio di dichiararsi al mondo.
Media e programma televisivi si sono occupati delle unioni civili in questo anno dalla approvazione. Riscontri che il linguaggio utilizzato per descriverli sia improprio? E’ necessario che vi sia un garante del linguaggio legato a queste tematiche?
In linea di massima i programmi televisivi che si sono occupati di unioni civili hanno fatto un ottimo lavoro: pensiamo per esempio a Stato Civile (Rai3), che ha vinto un DMA come miglior programma televisivo per il 2016, ma anche ad Adesso sì, andato in onda di recente su Rai2. I problemi più grossi, mi sembra, ci sono quando media e programmi TV raccontano storie che hanno a che fare invece con l’identità di genere: la confusione è ancora tanta, e il linguaggio che viene utilizzato ne è il riflesso. Stesso discorso per la GPA. Di sicuro, almeno per quel che riguarda l’informazione, sarebbe bello che venissero adottati protocolli deontologici come già si fa, per esempio, per tutelare i diritti dei minori, dei richiedenti asilo, dei detenuti ecc.
A differenza degli altri paesi, l’Italia ha bisogno di più tempo e un supporto per saper comunicare al meglio le diversità?
La differenza vera, a mio parere, sta nella lentezza con cui le istituzioni stanno riconoscendo l’esistenza delle persone Lgbti.
È mamma di due bambine, Cloe e Nina. C’è un linguaggio che secondo lei va usato con i più piccoli per comunicare le differenze e insegnare a non discriminare?
Ciò che sapevo, che mi avevano già detto e ho ritrovato da genitore, è che va sempre usato il loro modo di comunicare. Possono essere fiabe, storie o ritornelli che fanno addormentare, e sognare. Servono in ogni caso: ai bambini bisogna dire le cose come stanno. Senza dimenticare che da un punto di vista educativo, più che il linguaggio, che comunque dev’essere corretto, conta l’esempio.
Ciò che non sapevo e ho scoperto con grande sorpresa è che ogni volta che li aiutiamo a scoprire il mondo, ogni volta che riusciamo a farlo raccontando ciò che realmente è, sono loro a sorprenderci. E’ un esercizio bellissimo e ci fa scoprire che siamo noi ad avere pregiudizi. Siamo noi ad avere paura della diversità; loro iniziano a conoscere la realtà e nulla può essere uguale a qualcosa quando si scopre il mondo per la prima volta. Siamo noi ad avere bisogno di conoscere già le risposte. Le domande dei bambini sono sempre semplici, è la nostra paura di non saper rispondere a renderle difficili, e a volte ci dimentichiamo di quanto sia più semplice rispondere la verità. Quando non la si conosce, perché può succedere di non avere le risposte di tutto, non serve inventarsi nulla, basta chiedere a loro cosa ne pensano: è quasi sempre la migliore risposta possibile. Non bisognerebbe aver paura delle domande che fanno i figli, ma di quelle che non ci fanno.