È una storia vera “Flee”. Jonas Poher Rasmussen, regista danese autore più di cortometraggi che di lungometraggi (ne colleziona due “What he did” e “Alla ricerca di Bill”), dirige un film che lascia un segno, un’impronta indelebile sul passato del rifugiato Amin con un artifizio cinematografico insolito per una storia così forte: un’efficace animazione che si mescola al tratto documentaristico di un racconto realmente accaduto. Da far venire la pelle d’oca.
E le tre candidature agli Oscar manifestano quanto l’animazione in un dramma del genere sia la chiave per aprire la porta dell’immaginazione. Perché di toccante violenza fisica e psicologica se ne può parlare anche con i disegni che si animano, con quei chiaro-scuro di ritratti abbozzati con un carboncino come fossero dipinti su tela. E anche se il passato bussa alla porta come un calcio nello stomaco, la speranza di un futuro migliore trascina sempre con sé gli strascichi dell’abissale voragine della disperazione.
Miglior film internazionale, miglior documentario e miglior lungometraggio d’animazione: tre statuette d’oro che (potrebbero?) confluire insieme in “Flee”. È già acclamato dal plauso del pubblico questo commovente e intenso film, straordinario nella sua capacità di aggiungersi come un pezzo importante nel grande puzzle della storia del cinema.
Drag Race Italia: aperti i casting per la seconda stagione. Ecco come fare per partecipare…
“Flee”, trama del film
Amin è un uomo 36enne di origini afghane. Vive in Danimarca insieme al suo compagno Kasper e insegna all’Università. La ricerca di una casa comoda dove poter vivere insieme al futuro marito provoca in Amin una sensazione strana, un vuoto lacerante dentro che lo riporta indietro nel tempo. Ai suoi strazianti e tormentati ricordi passati.
In primo piano, con gli occhi chiusi e qualche lacrima che scende dolorosamente sul viso, Amin ci accompagna alla sua triste infanzia, a quando nel 1984 era un bambino “diverso” dagli altri con l’amore per i vestiti femminili che indossava per attirare l’attenzione e la musica alle orecchie che lo distoglievano da tutti i commenti qua e là. Era felice Amin, insieme alle due sorelle, al fratello più grande e ai suoi genitori. E con la fervida attrazione per i ragazzi.
E i ricordi vagano (dal 1984 in poi), dal doloroso allontanamento forzato del padre che parte per la guerra che dilagava in quegli anni in Afghanistan, fino alla prigione e poi nessuna notizia. Il padre che scompare nel nulla. Fuggire verso una nuova meta, la Russia, per salvarsi dal conflitto lasciando tutto alle spalle era l’unica soluzione possibile. E, invece, dalla madrepatria inizia il faticoso e insidioso viaggio per la Svezia per cercare asilo in un posto sicuro con quei pochi soldi racimolati dal fratello, con tutti i soprusi verso i poveri rifugiati. Tutto per un futuro dignitoso.
Un disperato passato che trascina i postumi psicologici delle umiliazioni, e per Amin, che è riuscito a sopravvivere, diventa complicato rapportarsi e fidarsi delle persone, anche con il suo amato Kasper.
“Flee”, una storia rivolta a tutti?
È una prodigiosa mescolanza di animazione e documentario raccontata in prima persona “Flee”. L’obiettivo della cinepresa inquadra in primo piano il viso di Amin, disteso come in una seduta terapeutica, il microfono accanto per amplificare la voce. E i lunghi flashback riaffiorano come ricordi spezzati, amari, che fanno male al cuore. “Flee” è una fuga dal brutale passato che apre un piccolo spiraglio di luce verso il futuro, che per Amin significa vivere la sua vita di adulto ormai, con la sua adolescenza e infanzia bruciate nelle tappe del lungo cammino esistenziale.
E “Flee” è un inno alla libertà sentimentale che si slega dalla vessazione dei potenti che se la prendono con i più deboli. “Flee”, che tradotto significa “fuggire”, è l’umanità di un bambino che combatte la sua guerra interiore alla ricerca della felicità deturpata. Che riesce a carpire solo da adulto, accanto al suo Kasper, distante dalle illuse traversate, i trafficanti ben pagati (il traffico di uomini era all’ordine del giorno) con in testa solo i money e uno sfregio alla vita di un povero bambino spaventato. E non manca di certo la corrotta polizia russa che si diverte a maltrattare chi non ha i documenti in regola in cambio del silenzio assordante. Violenze fisiche anche sulle donne che non proferiscono parola, tanta è la paura e la rassegnazione.
Per non parlare dell’omosessualità che la cultura afghana ritiene inaccettabile, oltre che un’oltraggiosa vergogna per la famiglia. Non per Amin, con il ritrovato calore umano che lo pungola a desiderare la felicità che non ha mai conosciuto, con tanto di baci finali senza nessun pudore perché di scandaloso non c’è proprio nulla. La nuova vita con un volo di sola andata per la Danimarca. E il sollievo di poter vivere finalmente la sua (ri)scoperta libertà strappata crudelmente quando ancora la sua ingenuità lo abbracciava forte.
Che sia per tutela della privacy (di Amin, la sua famiglia e il regista stesso con tanto di capelli biondi) o per fantasticare su un pubblico più giovane (i bambini e il loro primo approccio a tematiche forti), i disegni tratteggiati come fossero schizzi per dipingere il nero del male (le ombre della sua affranta gioventù) hanno reso “Flee” un piccolo capolavoro che si merita il plauso del pubblico per la sua straordinaria forza di commistione di animazione intervallata da immagini di archivio con un occhio critico sulla guerra e l’eco della sofferenza che perdura.
C’è la volontà di raccontare una storia diversa, cruda da far accapponare la pelle con un gioco di stile ben assemblato. Per mostrare squarci di esistenza e violenza fisica e verbale in un modo nuovo, con immagini da brividi che tuttavia non si attenuano con l’animazione. Come era già successo con il film animato “I racconti di Parvana” di Nora Twomey, un inno al potere salvifico della storia con un focus sull’oscurantismo culturale e morale. In simbiosi con “Flee”, raccontata a tutti per la prima volta nella verità assoluta che spezza la catena della chiusura mentale.