Gianluigi Ricuperati per www.vanityfair.it
Lo scrittore Gianluigi Ricuperati racconta di quella sera in cui si è interrogato su cosa ci sia di sbagliato nell’essere maschio, oggi
Puoi passar la vita a pronunciare la parola «lana». Puoi passar la vita a pronunciare la parole «marmo». Ma per evitare di vestirti di marmo e fare i pavimenti di lana, devi passare le mani su entrambi. Far aderire parole e cose: triturare supponenza, macinare esperienza.
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Per questo propongo che tutti gli uomini che non comprendono l’urgenza di una ridefinizione della mascolinità passino una notte in un gay sex-party hotel in una qualsiasi capitale del nostro mondo globale. A me – bianco, privilegiato, maschio, eterosessuale, padre di figli maschi e figlie femmine – è capitato per errore, e non dimenticherò la lezione che ho imparato: il mio corpo, la parte più superficiale del mio corpo e della mia mente, hanno provato per un paio d’ore cosa significa essere una donna.
Una donna in pubblico è un pesce immerso in un’acqua speciale, comandata da un complesso sistema di leve che cantano una sola frase: «non dipende dalla mia volontà», cioè rispondono a una sola, enorme manleva di responsabilità, perché quella volontà è sempre maschile. E in quell’ampolla i verbi sono tutti participi passati: le azioni sessiste non hanno mai la chiarezza del futuro o la tragicità del remoto. In treno, al bar, in piazza, una femmina viene commentata, approcciata, circumnavigata, annusata da distanza, fatta scivolare nell’acqua di cui tutte queste condizioni sono gli elementi primordiali. Di questi oligoelementi è impregnato il brodo di cani nel quale nuota la prevaricazione quotidiana di umani col pene nei confronti di umani con la vagina.
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E io, che scrivo queste parole, sono molto spesso coinvolto. Ma provo sempre a mettere un tratto di dubbio in ogni mia azione, magari un tratto esclusivamente mentale, qualcosa che non vede mai la luce: come tutti i cattivi pensieri che faccio quando lei – una qualunque, bellissima lei, decidete voi chi – passa davanti al mio sguardo.
Forse per questo la ruota del karma mi ha portato nel bar di un sex-party gay hotel in una sera di primo autunno, a Berlino, mettendomi nell’infelice condizione di dover fuggire da un posto che hai pagato per frequentare. A volte un errore non è un errore, ma l’occasione per cambiare. In quel posto, per poco tempo, ho visto all’opera – su di me, sul mio corpo – ciò che qualsiasi fanciulla vede succedere dai dieci anni di età in su, in qualsiasi ambiente.
La sola differenza, fondamentale, è che in quel l’ambiente i patti sono chiari, tecnicamente molto vicini al gioco, mentre la brutalità dei Weinstein di ogni taglia e latitudine è molto seria e tendenzialmente seriale. Ma facciamo un passo indietro.
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Come è successo ? Cosa è successo ? E dove?
L’inizio di questa storia, come gran parte delle vicende a noi contemporanee, accade davanti a uno schermo retroilluminato, nel contesto di una app che funziona come un’asta digitale per stanze d’hotel di alto lignaggio a un prezzo molto conveniente. Prenoti il pomeriggio per la sera, e trovi spesso l’albergo ideale per una vita passata in viaggi continui (per ragioni professionali e culturali).
Qualcosa avrebbe dovuto avvertirmi: ma la disattenzione (il vero basso continuo del nostro cosmo) mi ha portato a misinterpretare una frase assai chiara: FOR ADULTS. Io avevo inteso «hotel senza famiglie, senza bimbi, che per una persona con tre bimbi piccoli sospesi fra due famiglie può risultare la promessa di una notte di sonno prima di una lunga giornata di lavoro. Così ho pagato. E me ne sono dimenticato. Fino al momento in cui il taxi mi ha lasciato lì davanti, e davanti c’erano uomini che si baciavano: ma per me era tutto normale, perciò sono entrato. E ho fatto il check-in.
Era quasi mezzanotte, ma non avevo mangiato, perciò dopo aver sbrigato le formalità ho chiesto dove fosse il bar, e ho preso l’ascensore fino al sesto piano. Certo – c’erano gigantografie di ragazzi nudi che facevano braccio di ferro, una scritta al neon ‘heterofriendly’, depliant con foto di giovani che saltano in un catino-piscina. Era chiaramente un albergo a tema. E proprio perché io sono felicemente eterosessuale e credo in un mondo di cittadini uguali e confini abbattuti, mi sono detto «chissenefrega». Come diceva James Ellroy parlando di Los Angeles: arrivi spregiudicato, parti pregiudicato.
Eccomi qualche istante dopo in attesa di un sandwich e una coca, e nell’ordine ho sentito su di me (che non sono Brad Pitt, ma neppure Gambadilegno): commenti, spostamenti d’aria, sguardi insistenti, small talk non brillante. Abituato a essere una mosca sul muro, mi sono trovato nei panni di una mosca sul muro con una ragnatela intorno, una ragnatela sospesa tra il possibile e il probabile.
E ovviamente ho passato la maggior parte del tempo con gli occhi sullo smartphone, descrivendo lo status bizzarro di quell’angolo di spazio-tempo in cui ero finito. E ho pensato: quanto può essere d’aiuto alle ragazze, l’esecrato schermo, per sgattaiolare via dalle occhiate indigeste, non ricambiate: pupille dilatate, pupille malinconiche e aggressive, pupille da poliziotti o da ex fidanzati, pupille con aghi potenziali. E guardandomi intorno ho capito di esser nella festa che non era prevista per me, una costruzione sociale nella quale tutti, con piena legittimità, si stavano divertendo: tutti tranne me. Ecco un’altra analogia che mi ha fatto pensare: così deve sentirsi una fanciulla in molte situazioni ben più frequenti di questa (che è una nicchia, un club aperto ad adulti consenzienti e liberi, e che non costituisce nessun legame tra il mondo gay e le orribili azioni di Cosby e dei Weinstein o di tanti molestatori più provinciali. Per altro Bryan Singer ha fatto lo stesso trattamento a decine di ragazzi omosessuali, e quindi la questione non è ovviamente di genere, ma di caratura sociale: il potere, e il potere maschile, e spesso fonte cristallina di corruzione morale).
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I sex hotel – gay o etero – sono porzioni di mondo nelle quali persone adulte e consenzienti vanno per divertirsi, talvolta in modo piuttosto estremo e talvolta in modo giocosamente violento. Non è affar mio. Non dovevo essere lì. Ero vittima di un errore causato dalla mia stessa distrazione. Quando, cercando di entrare in camera, ho incrociato due signori in accappatoio appoggiati al muro della stanza, a un paio di metri dalla porta, nell’oscurità elettrica del corridoio, ho deciso che senza offendere nessuno e senza sentirmi distante dai miei principi di amore incondizionato per tutto ciò che è queer, potevo andarmene a cercare un altro albergo. Così ho attraversato la strada e ho trovato un letto alla vecchia maniera pre-digitale, e per qualche ora ho dormito.
Oggi, riascoltando per l’ennesima volta il file pubblicato dal New Yorker con la conversazione tra Weinstein e la modella filippina, ho provato vergogna, certo, ho provato sgomento – meno, purtroppo – ma ho sopratutto sentito la consistenza delle sensazioni vissute in quella strana sera da commedia degli equivoci: e mi sono chiesto, e mi chiedo, e vi chiedo: cosa c’è di sbagliato nell’essere maschio, oggi? Tanto. Qualcosa. Un po’. Almeno un frammento.
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Se non ci credete, se state liquidando tutto con qualche battuta su di me o sulla storia che avete appena letto, vuol dire che siete i primi candidati all’esperimento sociale che non vorrei mai davvero veder realizzato. Voglio vivere in una società che usa gli immensi progressi degli ultimi cento anni per far immergere gli indifferenti nelle vite delle donne abusate dalla Precondizione Maschile. Magari non succede niente: ma se anche uno solo riuscisse a capire la distanza fra la lana e il marmo, sarebbe una data da festeggiare. I maschi – e soprattutto i maschi di potere – devono imparare da zero a colmare la distanza tra le parole e le cose.