Il mese del Pride esiste grazie a una donnache ha dato il via ad una lotta, per i diritti LGBTQ+, in Occidente: Marsha P. Johnson.
Marsha è stata una figura di spicco nella prima settimana delle rivolte e negli anni successivi il suo contributo alla comunità LGBTQ+ fu fondamentale. Purtroppo a causa della sua stessa identità di drag queen, donna nera, e sex worker, spesso il suo ruolo fu sottostimato o completamente cancellato dai resoconti della rivolta.
Per questo, proprio oggi, è importantissimo conoscere e ricordare la storia di una figura coraggiosa e unica come quella di Marsha P. Johnson.
Un’introduzione importante: identità e pronomi
Gli anni in cui Marsha P. Johnson affrontava temi come l’identità e l’espressione di genere sono molto diversi dal panorama attuale. Negli anni ‘70 e ‘80, anche a New York, essere transgender era ancora meno accettato che oggi, il termine non ancora sedimentato nel vocabolario queer. Molti preferivano chiamarsi “drag queen”, “gay” o “queer”, usandoli (specialmente gli ultimi due) come termini a ombrello. Essere apertamente transgender o apertamente drag queen causava problemi anche nella stessa comunità queer. Si pensi solo che Stonewall, il famosissimo gay bar da cui partirono le rivolte dello stesso nome, inizialmente vietava l’ingresso a tutti coloro che non fossero uomini omosessuali.
Nonostante non si definì mai apertamente una donna transgender, Marsha visse gran parte della sua vita adulta come drag queen con il nome scelto e legale di Marsha P. Johnson. Per questo, come è corretto fare, utilizzeremo i pronomi femminili per descriverla.
Infine, in questo articolo parleremo spesso di “comunità LGBTQ+”. È importante però sapere che questo termine nascerà nel 1988, solo qualche anno prima della morte di Johnson.
L’infanzia
Marsha P. Johnson nacque nel 1945, in una cittadina americana del New Jersey. Visse con i genitori e sei fratelli, frequentando durante l’infanzia la Chiesa africana metodista episcopale. Questo fu un fatto importante, dato che rimase devota per tutta la sua vita tenendo in casa un piccolo altare privato, pur allontanandosi dalla famiglia. Iniziò a riflettere sulla sua espressione di genere già nella prima adolescenza mettendosi dei vestiti ma smise presto a causa del bullismo subito. La madre inoltre dichiarò che essere omosessuali voleva dire essere “più bassi di un cane”. In questo clima, che a malapena conosceva le realtà LGBTQ+, Marsha non sentiva di avere un posto.
A 17 anni, con 15 dollari e un borsone di vestiti, lasciò Elizabeth e si stabilì a New York, nello specifico al Greenwich Village.
La vita a New York
A New York inizialmente lavorò come cameriera, ma presto la sua vita cambiò radicalmente. Si avvicinò presto agli ambienti del sex work, inizialmente alla prostituzione di strada. Più tardi disse che la sua vita era basata su “la liberazione sessuale e omosessuale, ed essere una drag queen”. Questi primi anni, dal 1963, furono fondamentali per la direzione della sua vita. Qui iniziò a sentirsi libera, usando prima il nomignolo Black Marsha, che poi diventò Marsha P. Johnson. Cambiò legalmente il suo nome davanti ad un giudice, spiegando che la P, presunta abbreviazione di un secondo nome, in realtà stava per “pay it no mind”, letteralmente “non farci caso”. Johnson invece era ispirato all’Howard Johnson, ristorante sulla 42esima noto negli anni ‘60 come hotspot per la comunità LGBTQ+.
Il suo aspetto era travolgente, un misto di energia maschile e femminile. Alta e snella, vestiva con parrucche dai colori sgargianti, vestiti brillanti, alte scarpe col tacco rosse, e il tuo tocco speciale, una corona di fiori freschi. Questi provenivano dai banchetti del distretto dei fioristi di Manhattan. Marsha infatti dormiva spesso sotto quei tavoli e riceveva i fiori di troppo.
Marsha P. Johnson e i moti di Stonewall
Non esiste un resoconto ufficiale della prima rivolta. Specialmente per quanto riguarda il fatto scatenante e i momenti iniziali, ci sono diverse versioni. Sembra che Sylvia Rivera, donna transgender, tirò una bottiglia ad un agente dopo che la pungolò con un manganello, oppure che Stormé DeLarverie, donna lesbica, oppose resistenza mentre un agente la trascinava verso un’auto della polizia. In ogni caso, Marsha non fu presente nei primi momenti della rivolta: dichiarò infatti che arrivò a Stonewall verso le 2:00, quaranta minuti dopo l’inizio delle rivolte. La polizia aveva già dato fuoco allo Stonewall Inn. Da quel momento però, Johnson fu presente per le prime due notti di fuoco e violenza a Stonewall, da cui nacquero delle proteste e parate circa una settimana dopo.
La prima notte, Marsha tirò un bicchierino da shot su una finestra del bar, urlando “io ce li ho i miei diritti civili”. Inoltre, diversi resoconti fatti attraverso interviste affermano che Marsha fu una delle prime donne a tirare un mattone alla polizia. Questo gesto divenne presto l’immagine Stonewall, ma non è mai stato confermato che fu effettivamente Johnson a tirare il primo, o uno dei primi, mattoni. Sappiamo per certo però che la notte successiva si arrampicò su un lampione e fece cadere un sacco pieno di mattoni su una macchina della polizia, rompendo il vetro.
Nonostante la mancanza di certezze sugli eventi della prima notte di Stonewall, sappiamo che Johnson ebbe un ruolo importante sia in quelle notti che nei giorni a venire. Infine, è importante sapere che è possibile che diverse persone presenti ai moti di Stonewall decisero consapevolmente di non menzionare Marsha nei loro resoconti. Questo perché la stessa comunità LGBTQ+ non vedeva di buon occhio le drag queen. Molti pensavano che queste donne e uomini “peggiorassero l’immagine pubblica della comunità”.
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L’attivismo di Marsha P. Johnson
Dopo gli eventi di Stonewall, Marsha P. Johnson si immerse completamente nell’attivismo LGBTQ+ a New York. Si unì al recentemente nato Gay Liberation Front e fu attiva nel Caucus delle Drag Queen. Il GFL fu uno dei gruppi che dopo le rivolte di Stonewall lottarono per i diritti della comunità LGBT negli Stati Uniti. Rappresenta inoltre uno dei pochi gruppi ad ammettere e sostenere le drag queen e le persone transgender.
Insieme al GFL, un anno dopo le rivolte di Stonewall Marsha marciò al primo vero Pride, allora chiamato Christopher Street Liberation Gay, in onore della via dello Stonewall Inn.
Nell’agosto 1970 fece parte di una protesta passiva alla New York University. Marsha, l’amica Sylvia Rivera e altri membri del GFL occuparono un salone dell’Università. La NYU aveva infatti cancellato un ballo dopo aver scoperto che gli organizzatori facevano parte di organizzazioni LGBT.
Poco dopo, sempre nel 1970, Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera fondarono la STAR, Street Transvestite Action Revolutionaries, in italiano travestiti di strada rivoluzionari d’azione. L’obiettivo dell’organizzazione era quello di creare una rete di supporto per la gioventù LGBTQ+ in difficoltà o senzatetto e per i sex worker. La STAR non discriminava, prendendo sotto la sua ala protettrice tutti coloro che ne avevano bisogno. Marsha e Sylvia erano le madri di questa realtà rivoluzionaria per il movimento di liberazione queer, e la STAR diventò un modello per molte organizzazioni successive.
Nonostante la loro autorità e il loro indiscutibile ruolo nel movimento, nel 1973 vennero escluse formalmente dalla parata del Pride dall’organizzazione di gay e lesbiche che la stava organizzando. Questo perché “le drag queen rovinavano la reputazione [della parata]”. Marsha, Sylvia e le altre drag queen marciarono a capo della parata in segno di protesta.
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La morte misteriosa
Poco dopo il Pride del 1992, il cadavere di Marsha P. Johnson fu trovato nel fiume Hudson. La polizia dichiarò la morte un suicidio senza nessun tipo di investigazione, nonostante una grande ferita presente sulla testa di Marsha.
Nonostante la sua personalità radiosa, Johnson non aveva una vita facile. Lavorava come sex worker per necessità, e farlo da drag queen era molto pericoloso. Soffriva di problemi psicologici, che erompevano in sfoghi di rabbia. Eppure, tutti gli amici di Marsha dichiararono che nonostante i problemi, non era incline al suicidio e si rifiutarono di accettare la dichiarazione della polizia.
Diversi testimoni dichiararono di aver visto Marsha essere aggredita da un gruppo di delinquenti. Uno in particolare dichiarò che sentì un suo vicino di casa ad un bar vantarsi di aver ucciso una drag queen di nome Marsha. Gli amici di Johnson accusarono la polizia di non aver prestato abbastanza attenzione al caso perché la vittima era una drag queen nera.
Solo nel 2002 venne riaperto il caso relativo alla morte di Marsha. Non venne scopeto nulla di nuovo, ma la morte, da “suicidio”, fu ufficialmente dichiarata “non determinata”.
Il personaggio di Marsha P. Johnson è una figura importante, che dobbiamo ricordare e dalla quale dobbiamo farci ispirare. Specialmente durante l’anniversario di Stonewall è fondamentale ripercorrere i passi della comunità LGBTQ+, guardare coloro che iniziarono a lottare per i diritti, sentendoci grati della strada che è stata fatta prima di noi.