Estratto da “Dadauffa: memorie agitate”, di Donatella Rettore (ed. Rizzoli), pubblicato dal “Fatto quotidiano”
A Londra andai per stare un mese e ci rimasi quattro anni. Abitavo a Oakley Street, vicino a David Bowie. Ogni mattina scendevo dal panettiere e lo incontravo lì. Indossava il suo lunghissimo trench grigio, aveva il Borsalino in testa e l’eleganza di un lord. Era molto riservato, niente a che vedere con i suoi personaggi. Lui li inventava, li uccideva e risorgeva in altra forma. Li avevo adorati e assorbiti tutti: l’alieno, il messaggero caduto sulla Terra, il mutante metà uomo e metà cane, il pierrot schizofrenico.
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Ma davanti a me, al banco del pane, c’era solo un uomo di altri tempi, di un’educazione e di una delicatezza disarmante. La terza volta che lo incontrai, si levò il cappello. Io non esigevo certo questo galateo, ma mi fece piacere perché non sembrava un gesto formale. Gli apparteneva. Da quel giorno in poi, ogni volta che lo incrociavo, si alzava il cappello e mi chiedeva: “How are you today?”, poi se ne andava augurandomi una buona giornata. Ovviamente non aveva la più pallida idea di chi fossi, e io non approfittai della sua disponibilità. Ero inebetita di fronte a lui, uno dei miei miti assoluti, ma fui abbastanza scaltra da non approfondire la conoscenza.
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Mai entrare in confidenza con un mito, se non vuoi essere delusa. Io avevo bisogno che Bowie restasse lì dov’ era, irraggiungibile e perfetto. Per strada una mattina incontrai anche Margaret Thatcher. Non sapendo come salutare un primo ministro, accennai un inchino. E lei: “Non sono giapponese”. D’improvviso mi ricordai il motivo per cui era scoppiato il punk. Lascio immaginare quanto mi tremassero le gambe al primo incontro con Elton John. Per quanto cercassi di fare la sostenuta, la donna che non subisce il fascino del famoso, lui si accorse subito del mio imbarazzo. Anche perché, quando mi passò la tazza di tè, me lo versai addosso. Ero improvvisamente un’imbranata, Allora lui, in salopette rosa shocking e occhiali di strass, mi disse: “Sta’ calma, babe. Io non sono nessuno, solo Reginald Kenneth Dwight“. Poi aggiunse per sdrammatizzare: “Sono Reginaldo. Un omosessuale come tanti altri”.
Risi ma ci restai male, perché me lo volevo davvero sposare. E non era così assurda l’idea, visto che poco dopo Reginaldo convolò a nozze con la berlinese Renate Blauel, sua tecnica del suono. Comunque, dopo aver bevuto il tè, Elton si sedette al pianoforte e mi salì un groppo in gola. La sua voce ha sempre toccato le mie corde, artistiche, sensoriali, sessuali.
Non sapevo spiegarmi il fenomeno, ma appena si metteva al piano, io mi bagnavo. Non ci potevo fare niente. Costituiva la prova che il piacere fisico è mentale, perché esteticamente Elton John non corrispondeva certo al mio ideale maschile. Mi rapiva il suo talento, talmente smisurato che nient’ altro contava. La sua voce mi portava ad altezze inimmaginabili, che evidentemente si ricongiungevano all’origine del mondo dipinta da Gustave Courbet. Appuntamento in zona pubica, dove la melodia incontra l’anatomia. Me lo feci bastare.
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Non frequentai Elton John durante il mio soggiorno inglese, fu piuttosto sua madre Sheila a darmi confidenza. Le piacevano i vestiti pazzi del mio armadio. Mi chiamava per raccontarmi dei suoi acquisti. Una volta andai da loro a mangiare, circondata da maggiordomi e cuochi, e lei volle indossare i miei occhiali e i miei anelli. Un’altra volta prese la mia pelliccia fucsia e uscì abbinandoci dei sandali. A dicembre. Era lei la vera eccentrica in famiglia, capace di far impallidire qualsiasi Rocket Man. Lui aveva i suoi giri, e non mischiava il privato con il lavoro. Dispensava però preziosi consigli. Ad esempio, mi indirizzò al corso di mimo tenuto da Peter Brook.
Non me lo feci ripetere due volte. Mi iscrissi e la seguii per tre anni. Fino a quel momento mi ero presa molto in giro, volevo studiare, fare qualcosa di più serio. I primi tempi furono difficili perché insegnavano la gestualità, senza mai ricorrere all’uso della voce. Complicato per una cantante, come per una ballerina ignorare le gambe.
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L’uso della voce arrivò solo all’ultimo anno, e sinceramente non ero brillante nel coordinare voce e gesto. È quanto di più artistico ci sia, un dono che hai o non hai. Nei saggi finali, dove Peter Brook ci onorava della sua presenza, io comunque c’ero sempre, anche solo per un cameo. A lezione venivano Annie Lennox e Kate Bush.
Alle cinque del pomeriggio ci si spostava in una sala da tè lì vicino, alle diciannove migrazione al pub. George Michael fu uno dei primi artisti che conobbi a Londra. Ci ritrovavamo in un ristorante italiano a King’ s Road quando lui non era ancora una popstar. Il fisico curato, tiratissimo: capii subito che poteva consigliarmi una palestra come si deve, di quelle blasonate, con personal trainer ed esercizi mai sentiti in Italia. Su questo, Elton John non mi aveva saputo dare ragguagli. Quando gli chiesi della gym, lui rispose: “Cosa? Vuoi dire gin!”.