Con la sentenza 180 del 13 luglio 2017 la Corte Costituzionale ha definitivamente scardinato la necessità di interventi chirurgici o trattamenti ormonali per ottenere la riassegnazione del sesso anagrafico. Il tutto inizia al Tribunale Civile di Trento nel 2015, quando in due diversi procedimenti le parti ricorrenti, interessate al cambio di sesso, propongono di sollevare una questione di costituzionalità sulla legge 164 del 1982 in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, perché stando alla lettera della norma l’ intervento chirurgico e ormonale di trasformazione era un elemento essenziale per la rettifica del sesso anagrafico.
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Nonostante il testo della normativa fosse già stato ampiamente trasfigurato e martoriato dalle varie interpretazioni estensive e nonostante già la Cassazione aveva consolidato una lettura forse anche contraria alla legge, il tribunale di Trento si è voluto spingere oltre. Il giudice remittente aveva ben compreso che si stava applicando una norma contraria al testo, così ha invocato la Corte Costituzionale affinché semplicemente eliminasse dall’ ordinamento quelle parti della legge scomode per il progressismo, che ultimamente ha fatto breccia anche nelle alte corti italiane. La Corte Costituzionale, però, ha dichiarato la questione non fondata, ma non per uno scatto di fedeltà al buonsenso che ci direbbe che un uomo o una donna dovrebbero essere tali se biologicamente o quantomeno anatomicamente lo sono realmente, bensì perché ormai, secondo l’ interpretazione granitica della Cassazione, uomo o donna che sia ha «il diritto fondamentale all’ identità di genere» e quello deve essere applicato. In sostanza il giudice deve limitarsi a controllare se la persona nelle relazioni sociali, nelle aspirazioni personali e nella vita quotidiana si senta a proprio agio con una identità sessuale (o meglio di genere per essere politicamente corretti) diversa da quella che al momento della nascita gli è stata attribuita guardando semplicemente le caratteristiche anatomiche. Sembrerebbe quindi che ognuno possa, e forse anche debba a questo punto, scegliere se essere maschio o femmina, ma la Corte in conclusione nega questa eventualità, perché «il dato volontaristico» non è sufficiente, trasformando il giudice nel caso concreto in un decisore onnipotente.
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