La Corea del Sud, finora indicata come paese modello per la gestione dell’epidemia da nuovo coronavirus, grazie alle tempestive chiusure e soprattutto a un sistema di tracciamento tecnologicamente avanzato e molto capillare, è ora alle prese con un problema che potrebbe non risolversi tanto facilmente, e riguarda le chiusure della società sudcoreana nei confronti dell’omosessualità.
Hanno superato il centinaio i nuovi contagi all’interno del quartiere della movida della capitale Seul, Itaewon. Il picco di infezioni ha fra l’altro costretto le autorità sudcoreane a rimandare di una settimana la riapertura delle scuole, prevista inizialmente per mercoledì 13.
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Secondo quanto riferito dal sindaco della capitale, Park Won-soon, in totale i casi collegati al focolaio di Itaewon sono arrivati a 101; attraverso i dati forniti dagli operatori di telefonia mobile, ha spiegato il primo cittadino citato dai media locali, è stata redatta una lista di 10.905 persone che hanno visitato il quartiere, famoso anche per essere frequentato dalla comunità gay. A tutti è stato inviato un messaggio in cui si raccomanda di sottoporsi a tampone. Si teme, però, che molti degli avventori dei nightclub non si facciano avanti, per via dello stigma che in Corea del Sud colpisce ancora gli omosessuali: temono ripercussioni sulla vita familiare e sociale, e addirittura di perdere il lavoro.
La diffusione della nuova ondata di contagi a Seul sarebbe stata alimentata dal cosiddetto ‘super diffusore’: un 29enne originario di Yongin, nella provincia di Gyeonggi, recatosi nei locali di Itaewon nel fine settimana del 1° maggio.
Finora in Corea del Sud, il primo paese colpito dal virus dopo la Cina, sui poco meno di 52 milioni di abitanti, si sono ufficialmente registrati 10.936 casi e 258 decessi.