Alle Olimpiadi di Tokyo aveva stregato tutti. Più per il suo sorriso pulito e la sua abitudine di sferruzzare a bordo piscina, che per il suo oro nei tuffi, il primo a 13 anni dalla sua prima partecipazione olimpica. Ma per Tom Daley, oggi icona della comunità Lgbtq+, non è sempre stato tutto facile.
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E se ad agosto, con le lacrime agli occhi, dal podio si era detto «incredibilmente orgoglioso di poter dire che sono gay e che sono un campione olimpico», in passato ha sofferto molto del dover nascondere la sua omosessualità. Lo ha rivelato lui stesso in un’intervista a British GQ: «Ho fatto coming out a 19 anni, è stato traumatico ma è stato soprattutto liberatorio. Onestamente, oggi, vorrei averlo fatto molto tempo prima», ha detto, svelando un’adolescenza di tormenti e sofferenza.
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«Ho cominciato a gareggiare a livello agonistico molto presto, ero un ragazzino, ma ero già sotto i riflettori», ha raccontato, «per me è stato molto difficile vivere i drammi di un’età in cui stai esplorando la tua sessualità, sotto gli occhi di tutti. Per me era inconcepibile anche solo pensare di poterlo dire a qualcuno. Chissà, forse se non fossi stato così in vista le cose sarebbero andate diversamente, magari sarei riuscito a “liberarmi” prima, ma è davvero surreale dover passare attraverso tutti questi tormenti quando hai gli occhi del mondo addosso».
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Nel 2013, però, Tom ha conosciuto e si è innamorato del regista Dustin Lance Black, oggi 47enne, e ha trovato il coraggio di dirlo: prima ai nonni (che non l’hanno presa molto bene, ha raccontato nella sua autobiografia Coming Up for Air: What I Learned from Sport, Fame and Fatherhood, appena arrivata in libreria) e poi al mondo intero, attraverso il suo canale YouTube. Un gesto che non solo lo ha fatto entrare per direttissima nell’empireo delle icone Lgbtq+, ma soprattutto ha cambiato la sua vita, facendolo sentire per la prima volta se stesso e libero di fare le sue scelte.
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Quella di sposare, nel 2016, Dustin, con il quale tre anni fa, con maternità surrogata, ha avuto il piccolo Robbie, e anche quella di lavorare a maglia sugli spalti olimpici sotto gli occhi del mondo. Una passione che gli ha permesso di conquistare le simpatie di tutti. E di finire senza affanno il suo Olympic Cardigan, che poi è stato messo all’asta per beneficenza, destinando il ricavato a un’associazione contro il tumore al cervello, malattia di cui è morto, nel 2011, il padre del campione.
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