Di Barbara Costa per Dagospia
“Mi piacciono le straf*ghe da copertina. Io sono più un ragazzo che una ragazza. Però non sono lesbica. E comunque non prima di aver bevuto una sambuca!”. Ve la ricordate Amy Winehouse?
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In questi giorni avrebbe compiuto 40 anni, se n’è andata d’alcool scoppiata a 27, abbandonata a sé stessa da amici e fidanzati e parenti, e chi se la ricorda, come, se la ricorda? Svalvolata e al pari artista inarrivabile, o la santa che oggi portano in mediatica processione i suoi cari? Esce un altro libro autorizzato dalla sua famiglia, “Amy Winehouse in her words”, (HarperCollins ed.), “e questa è la vera Amy”, ci assicura il padre Mitch.
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Certo, come no, su Santa Amy Winehouse di libri ne hanno firmati (e incassato) in parecchi, pure la suocera, fatto sta che io e non solo io Amy ce l’ho stampata in mente taaanto diversa, autentica fuorché santa. Era o non era, Amy, “una alcolista” e lo ammetteva lei per prima, “ho sbronze orribili, violente, prepotenti, da tempesta emotiva”.
E non è stato lo strameritatissimo successo improvviso a f*tterla, perché Amy ha iniziato “a bere a 12 anni, e non ho più smesso. Bevo tutti i giorni, io adoro l’alcool, il suo sapore”, e beveva pure in rehab, beveva appena si svegliava, verso le 4 del pomeriggio, da diva quale era, “io faccio colazione con pancetta e uova, subito dopo bevo bourbon, o vodka, o Jack Daniel’s con Coca-Cola”.
Amy cantava di stomaco “dove senti che nasce l’amore, e il dolore dell’amore che finisce”, e Amy scriveva e cantava “di cose che mi sono successe, di cui non posso liberarmi sul piano personale. Ho qualche tendenza all’autodistruzione…”. Autodistruzione in cui rientrava il sesso, e gli uomini: “Io non ho necessità sentimentali ma solo fisiche, il sesso mi rilassa”. Amy era coerente: “Credo nel sesso occasionale, in fondo è come farsi una canna!”, e era lei a fare la prima mossa, sempre, “c’è chi mi considera una pericolosa psicopatica, ma io voglio frequentare chi mi pare. Io sono una da: tu mi piaci, io ti piaccio? Sì? Dai, combiniamo!”.
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La prima storia seria Amy l’ha avuta con Chris, 7 anni più grande di lei, sposato, nonché suo datore di uno dei vari lavoretti che Amy, piantata la scuola a 15 anni, si trovava per pagarsi la vita, l’erba, e il canto. Chris è in ogni traccia di “Frank”, primo disco di Amy, disco “che è farsi una p*ppa!”, e disco inc*zzosissimo come ci stai col primo che ti spezza il cuore. È di Chris che Amy non ha “intenzione di conoscere tua madre/ voglio solo spalmarmi il tuo corpo sul mio”.
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A Chris seguono flirt di poca importanza, tra cui un certo Tyler, con cui convive, finché in uno dei pub di Londra dove Amy va a giocare a biliardo, e a sbronzarsi mentre ascolta musica dei ’60, musica Motown (“dovevo nascere in quell’epoca”), incontra Blake Fielder-Civil, uno che non ho mai compreso che arte avesse, che lavoro facesse, consulente musicale, boh.
Blake è il primo amore assoluto di Amy. Blake è il suo “Baby”. Stanno insieme 2 anni, poi si lasciano, “e ci siamo trattati di m*rda”. Dopo Blake, Amy si fidanza con Alex, nato il suo stesso giorno 2 anni prima di lei, e ci va a convivere a 4 con una sua amica e il di lei fidanzato. Amy sta con Alex ma “sogno Blake”. Alex “è str*nzo”, bastano 7 mesi e “non c’è più passione, siamo abitudinari, fine fuochi d’artificio”.
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Amy e Blake tornano insieme, è Blake che la inizia all’eroina, e al crack. E a tagliarsi. Esce “Back To Black”, il secondo disco di Amy, vendite spaziali, Amy che assurge a stella mondiale, ed è il disco dove le canzoni parlano del suo periodo disperato, quando lei e Blake si erano lasciati, e lui era tornato dalla sua ex, e lei si era messa con Alex, per cornificarlo con Blake. Amy e Blake si sposano, a Miami, in una cerimonia con solo loro due, e che costa 130 dollari. Passano la giornata con quelli di “Rolling Stone” che la intervistano per un servizio che fa il giro del mondo.
Blake finisce in carcere per aggressione, e Amy fa in pubblico e no la moglie inconsolabile. Ma è Blake che, scarcerato, chiede il divorzio. Amy glielo concede e cade in un baratro drogato su cui i tabloid ci banchettano. Non ci sono più suoi dischi ma sporadiche collaborazioni, roba incisa ma non ultimata, ci sono altresì altri uomini. C’è Reg Traviss, regista, c’è Pete Doherty, rocker matto e drogato peggio di lei, con cui Amy passa più di un lungo weekend da fattoni.
Amy fuma crack più 60 sigarette al giorno, i medici le diagnosticano un principio di enfisema. E Amy non lo negava né lo ha mai nascosto, di soffrire di disordini alimentari: “Ho flirtato con ogni specie esistente di disturbo alimentare, e non intendo legarmi a un disturbo in particolare. Mi gira così”.
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Pochi giorni prima di morire, è in ospedale, è gravemente debilitata, il padre rivela (nel suo memoir “Amy, mia figlia”) che lui non può andare da lei perché “mia figlia non è un relitto come dicono i media”, e poi lui è in USA in tournée (papà Mitch è un ex tassista che, coi soldi e il successo della figlia, ha fatto un suo disco, jazz, dacché lo vuol fare pure lui, il cantante) ma più perché si è siringato da solo una singolare sostanza per spianarsi le rughe della fronte e sostanza che gli ha provocato una non grave paresi facciale. Solo quando gli giunge la notizia della morte della figlia, corre da lei.