Si sono tenuti ieri a Piacenza, un anno dopo la sua morte, i funerali di Elisa Pomarelli, con il lutto cittadino.
La famiglia di Elisa ha dovuto aspettare tanto, troppo tempo per darle l’ultimo saluto, un’attesa dovuta ai lunghissimi accertamenti medico-legali, che ha aggiunto dolore al dolore. «Se potessi tornare indietro non farei più figli, ma non perché non sono contenta di loro. Per questa società» ha detto la madre Maria Cristina, in una lettera aperta scritta a fine luglio.
«Sono molto delusa dalla giustizia» ha aggiunto. La ventottenne era stata uccisa il 25 agosto 2019 da Massimo Sebastiani, 45 anni, che lei credeva un amico, perché l’uomo non riusciva ad accettare che Elisa non volesse una relazione di coppia con lui, nonostante la ragazza gli avesse detto di essere lesbica.
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«In casi simili all’omicidio Pomarelli, in cui l’accusato è il marito o il compagno della vittima, il rito abbreviato è escluso completamente. Eppure il femminicidio non è l’omicidio della moglie o della compagna in quanto tale, ma l’omicidio di una donna in quanto donna, e questo deve includere le donne lesbiche ammazzate perché “non disponibili” alle attenzioni di un uomo — spiega Ilaria Todde esperta giuridica di EL*C che lavora a Bruxelles —. Il fatto che l’ordinamento italiano compia questa differenziazione è esemplificativo di due cose: una comprensione parziale del fenomeno del femminicidio e l’invisibilità delle lesbiche quando si scrivono le leggi. Dipende dal fatto che si formulano avendo uno “standard” in testa. Ecco, bisogna smettere di supporre che una donna sia automaticamente eterosessuale o che possa subire violenza solo dall’uomo con cui è sposata».