Un prete di Milano ha scritto una lettera a Natalia Aspesi, per la sua rubrica su “il Venerdi – la Repubblica” dove ha descritto la sua vita, i suoi dolori e quel dolore di non essere mai riuscito a dire un “ti amo” ad un ragazzo, ecco il racconto:
Mi è piaciuto un suo accenno molto tenero e gravido di riconoscenza nei confronti di sua madre. Ho letto anche che ormai i gay non le scrivono più, provo a farlo io. Sono un sacerdote di Milano che amministra un piccolo gioiello di chiesa in pieno centro. Come lei ho perso la madre parecchi anni fa, ma come lei ne mantengo un ricordo vivissimo. Alla fine un sacerdote non ha che un solo affetto terreno, quello della madre, e perdere lei è come perdere tutto; mi piacerebbe scrivere un libretto dedicato a lei come ha fatto Roger Peyrefitte con In morte di una madre, ma credo di non avere le qualità letterarie per farlo né il tempo necessario.
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E poi sono anche omosessuale, mi piacciono i bei ragazzi, proprio con la stessa passione e la stessa delicatezza lirica del poeta Sandro Penna, anche se ovviamente non ho mai praticato di fatto questa passione; certo mi innamoro facilmente dei miei studenti, insegnando in università, o di altri ragazzi conosciuti nel mio non breve percorso ecclesiastico. L’ unico mio rammarico è questo, oltre a patire ovviamente la solitudine, specie ora che da tempo non c’ è più mia madre: di non aver mai potuto dire per un solo secondo, per una sola ora o per un solo giorno a un ragazzo «ti amo», e sentirmelo dire anche da lui. Mai niente di tutto questo.
Ecco, volevo solo condividere con lei questi miei pensieri di sacerdote ormai “maturo” che ha un solo amore valevole di questo nome, il Signore Gesù, e che tuttavia riscopre sempre con meraviglia e incanto, nei ragazzi, un riflesso, uno specchio di questo amore esclusivo che tanto mi sarebbe piaciuto vivere e che non ho mai vissuto, e così sarà anche quando me ne andrò da questa Terra senza mai aver assaporato il gusto agrumato e fiorito di un bel ragazzo…
Ovvio che sono contrarissimo al celibato forzato dei preti latino-romani, non per ragioni personali, ma solo per ragioni teologiche cioè evangeliche. Sono pensieri sparsi questi, volevo solo condividerli con lei, cordialmente.
Ecco la risposta di Natalia Aspesi:
Invidio la sua fede, apprezzo la sua rinuncia, soprattutto perché lei è contrario, anzi contrarissimo, al celibato forzato imposto ai sacerdoti cattolici. Potrebbe disubbidire, immagino, senza sentirsi in colpa come forse fanno alcuni, invece ha deciso di attenersi agli obblighi della sua scelta, della sua “professione”, anche se non li condivide tutti. Cioè, mi scusi se mi esprimo da persona che, pur rispettando le religioni e chi le pratica con convinzione, non crede: ho sempre pensato che l’ amore sia un dono meraviglioso e doloroso, chiunque si ami e ci ami, nei soli limiti della reciprocità e del rispetto.
Mi pare di capire che lei si astenga dalla realtà dell’amore non tanto perché sono i bei ragazzi ad attrarla, ma perché ubbidirebbe alle regole della sua missione: sarebbe lo stesso anche se fossero le belle ragazze a piacerle. Molti suoi colleghi sono certo più fragili, forse con sensi di colpa, forse no.
Ci sarà una ragione per cui le altre religioni cristiane consentono il matrimonio e quella cattolica no, ed è troppo facile per me emettere un giudizio senza approfondire. Le sono molto grata di questa lettera, del dividere con me l’ affetto, la riconoscenza, la vicinanza, la devozione per le nostre rispettive mamme. Siamo stati fortunati, malgrado tutto.
Lettera a Natalia Aspesi per la sua rubrica su ”il Venerdì – la Repubblica”